Recensione a Antonino De Francesco, Tutti i volti di Marianna. Una
storia delle storie della Rivoluzione francese, Donzelli, Roma 2019
di Armando Pepe
Come in un sistema eliocentrico tutto il libro ruota
attorno al 1789, anno che segnò profondamente la storia europea, ponendosi
quale discrimine e paradigma. La Rivoluzione francese è considerata in quanto
oggetto di studio e polemica. Il volume Tutti i volti di Marianna. Una storia delle storie della Rivoluzione
francese, di
Antonino De Francesco, offre molti spunti e suggestioni, proponendo ed
argomentando in modo serrato e puntiglioso, come di chi fa proprio un tema e
lo tratta con passione: divisioni ermeneutiche che, afferma l’Autore,
«costellano puntualmente tutta la storia della Francia moderna» negli
anni-chiave attraversati lungo il corso dell’Ottocento e del Novecento; temi
agitati tanto per convenienza politica quanto per visioni e/o revisioni
d’insieme, secondo sincere e severe disamine. Osserva l’Autore che «nel corso
di questo lungo periodo di tempo, la Rivoluzione è stata un costante punto di
riferimento per interloquire con la politica del tempo presente e per offrire
occasioni di raffronto, che risultassero utili a indicare prospettive e pericoli». Di pari passo
si porta avanti anche il discorso controrivoluzionario, avente la medesima
scaturigine, lo stesso innesco, con gli eventi che si propagano a ricasco. Fine
ultimo dell’Autore è quello di «verificare come, concretamente, un’idea di
rivoluzione (e al contempo di controrivoluzione) abbia concorso alla
definizione di una identità europea capace di attrarre a sé altri mondi, a
cominciare proprio dal continente americano». È un lavoro, questo di De
Francesco, che si basa sulle interconnessioni con le altre rivoluzioni, pieno
di rimandi e anticipazioni, di prolessi e analessi storiografiche. Sono passati
in rassegna decine e decine di testi, alcuni sceverati con arguzia fino a
seguirne la fortuna editoriale: è il caso, tra gli altri, delle Reflections
on the Revolution in France di Edmund Burke, sulle cui argomentazioni
rivolte contro lo spirito del secolo Jean Jacques Chevallier, nel volume Le
grandi opere del pensiero politico, notava che si possono classificare
sotto tre categorie: «orrore dell’astratto, nozione inedita di natura, nozione
originale della ragione generale o politica». A proposito dell’opera di Burke,
l’Autore pone in risalto che «le sue pagine sono un atto d’accusa contro l’idea
stessa di rivoluzione e la loro lucidità ha finito per renderle un classico
della filosofia politica di stampo conservatore». Ogni rivoluzione è, per
Burke, sinonimo di distruzione. La filiazione del pensiero conservatore, di
tendenza liberale o reazionaria, è messa in risalto nella lucida analisi sia
dell’Essai sur les révolutions di François-René de Chateaubriand,
sia delle Considérations sur la France di Joseph de Maistre.
Sulla loro scia sono citati e analizzati, in misura necessariamente difforme
data la loro diversa rilevanza, una lunga serie di storici e filosofi
politici – non romanzieri come Victor Hugo –, minori, e
tuttavia funzionali al discorso. La narrazione procede densa e l’Autore conduce
il filo disponendo i capitoli come contrappunti, con ragionamenti a contrasto
eppur complementari. Questa pretesa di ampio respiro rende discontinuo e
intermittente l’interesse, anche perché è davvero tanto fitto di nomi e titoli
il testo e non è sempre facile seguirne il filo. C’è comunque un crescendo finale,
che desta l’attenzione di chi si occupa di questioni a noi più vicine o,
almeno, del Novecento: gli studi che sulla Rivoluzione furono condotti durante
il fascismo italiano, il quale nel 1932 celebrò sé stesso in una mostra della
Rivoluzione fascista, da studiosi come Angelo Oliviero Olivetti, Paolo Orano e
Roberto Michels che, sotto gli auspici del Duce, «avevano guardato
all’insegnamento di Georges Sorel e su quella base presto denunciato il
bolscevismo alla stregua di una variante del giacobinismo». Questi studiosi e
intellettuali militanti «trovarono tutti posto nella fascista Facoltà di Scienze Politiche di Perugia, istituita nel 1929 con il proposito di formare la
nuova classe dirigente del regime; e appunto in quella sede prese forma,
non a caso, la proposta di fare del fascismo il superamento del 1789, perché il
movimento mussoliniano sarebbe stato capace di concludere quel gigantesco
processo di trasformazione sociale e politica che la Rivoluzione francese aveva
avviato». Portato di quell’esperienza perugina fu l’opera Classe e Stato
nella rivoluzione francese, scritta da Giuseppe Maranini e pubblicata nel
1935, lo stesso autore che ebbe più duratura fama con Storia del potere in
Italia (1848-1967). Di particolare rilievo è la parte dedicata agli
studiosi francesi, che nel Novecento hanno analizzato la Rivoluzione
dividendosi tra loro, come dimostra l’evoluzione di François Furet, che
«sottolineava la necessità di una revisione in chiave liberale della propria
tradizione politica». Da sinistra a Furet, che da giovane fu anch’egli di
sinistra e considerato poi pertanto un reprobo, si contrappose Michel Vovelle.
Ancora oggi lo studio della Rivoluzione francese è fervido e ricco di
accattivanti letture e riletture, di cui l’Autore redige una bibliografia
ragionata.
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