Ma che bella famigliola!

Le piccole beghe familiari dei Firpo nella grande storia della Utet

A suo modo "libro-rivelazione" e a dir poco sconcertante, pur sin qui decisamente poco considerato e riflettuto, nonostante sia ormai vecchio di due anni, Lo “zio verde”, la Utet e altre storie di famiglia dei gemelli Alessandro e Massimo Firpo, il primo ex dirigente d’azienda (in particolare, ma non solo, nel settore editoriale: è stato alle dipendenze della stessa Utet, nonché di Garzanti, Pedrini e Vallardi), il secondo ben noto storico dell'età moderna, figli del celebre storico Luigi Firpo, autorevole penna de "La Stampa", membro del consiglio d'amministrazione della RAI dal 1980 al 1987, deputato del PRI dal 1987 al 1989 (anno in cui morì all'età di 74 anni), campione di bridge e molto altro ancora, è tutto tranne che un banale e tenero libro di memorie familiari, come suggerirebbe il titolo. A dire il vero di tenero non vi è nulla in questa ferocissima resa dei conti degli Autori con la propria storia familiare – e in particolare, ma non solo, con il padre Luigi Firpo –, rispetto alla quale passano in secondo piano altri aspetti interessanti del libro, come le pagine dedicate a quell'autentico – e dimenticato – genio dell'editoria che fu Carlo Verde, assunto in Utet nel 1922 e figura apicale della stessa per oltre un cinquantennio a partire dal 1930 (anno in cui fu designato amministratore e condirettore generale per poi diventare direttore generale nel 1934, amministratore delegato nel 1935, assumendo anche la carica di presidente nel 1945; cfr. p. 49), prozio materno dei gemelli Firpo e da loro chiamato lo "zio Verde” per distinguerlo da un altro zio con lo stesso nome di battesimo.
Il libro, rapidamente esauritosi e non più in commercio, non tanto perché andato a ruba ma perché presumibilmente stampato in una tiratura “ridotta” da parte dell’editore Nino Aragno, versatile imprenditore piemontese, le cui meritorie attività editoriali non rappresentano certo il core del suo business, ma straordinariamente e irritualmente magnificato e ringraziato dagli Autori nell’explicit della Premessa come fosse un novello Carlo Verde (“il cui spirito di iniziativa e coraggio imprenditoriale, passione per la cultura e fastidio per la boria dei dotti, cordiale affabilità e gusto dell’ironia – scrivono i gemelli Firpo a p. XIV proprio a proposito di Nino Aragno – ci hanno sempre ricordato quelli di Carlo Verde, inducendoci infine ad accettare di percorrere questo periglioso sentiero”), appare ben più complesso rispetto all’immagine edulcorata fornita dalla banale recensione giornalistica di Nicola Gallino apparsa su “La Repubblica - Torino” del 24/07/2023 (Lo zio Verde, ideatore di Utet, che non ha neanche una voce su Wikipedia). Gallino, che accosta il libro un po’ a Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli, un po’ ai Buddenbrook di Thomas Mann (!), definisce la demolizione morale e intellettuale di Luigi Firpo messa in atto da parte dai figli Alessandro e Massimo “un’uccisione edipica ma senza astio”. Ma il libro, se letto e riflettuto approfonditamente, appare ben altra e più complessa cosa. Esso, innanzi tutto, è una sorta di Zibaldone, dove le ampie digressioni sulla storia della Utet, grandissimo patrimonio culturale di questo Paese, purtroppo disgraziatamente dispersosi come noto, dalla fondazione da parte di Giovanni Pomba nel 1791 fino alla gestione di Carlo Verde, che si identifica con il periodo di massimo splendore dell’Azienda, e oltre, attraversando il successivo lento declino sotto la presidenza di Gianni Merlini per giungere al tracollo finale, con tanto di approfondite analisi dei bilanci, delle strategie di mercato e delle reti di vendita, si alternano ad aneddoti curiosi, talora ma non sempre divertenti, e resoconti dettagliati, non di rado truci e sconfortanti, di storia familiare.
I due Autori si autodefiniscono significativamente “figli di papà senza papà” (p. 162), ovvero figli di  cotanto "papà-zio” che fu per loro lo "zio Verde", che, nonostante non fosse altro che un parente acquisito ("marito di una sorella della nostra nonna materna", p. 3), avrebbe contribuito con grande benevolenza al loro sostentamento e alla loro educazione ("aiutava, proteggeva e viziava con particolare affetto noi due"; ancora p. 162) ben più dell'assente padre Luigi Firpo, separatosi di fatto dalla prima moglie Lucia Merlini poco dopo la nascita dei due gemelli (per quanto la famiglia abbia continuato a vivere per un bel po' in due appartamenti comunicanti), il quale da parte sua da un lato avrebbe rispettato e temuto lo "zio Verde", dall’altro avrebbe cercato non di rado di “fregarlo” (p. 122). I gemelli stigmatizzano i privilegi e gli agi della loro vita giovanile, al contempo mostrando disprezzo per le origini popolari del padre e della sua famiglia. Esemplificativo è il trattamento riservato ai nonni paterni Oreste Firpo, modesto venditore di cappelli detto “il povero Oreste” (p. 113), assente al matrimonio del figlio, del quale non aveva mai tollerato “che studi e lavori senza guadagnare” (come riportato in una lettera di Gioele Solari, maestro universitario di Luigi Firpo, a Norberto Bobbio del 14 agosto 1939; cfr. ancora p. 113) e di fatto ben presto dileguatosi, e Angiola Ramella, definita sprezzantemente ”donna a dir poco disturbata” (p. 112) e persino, quando era ormai prossima alla fine della propria esistenza, "ignobile vecchia” (p. 135). Meglio sorvolare sulla narrazione impietosa dell’agonia di questa povera donna, assistita nei suoi ultimi giorni dalla seconda moglie di Luigi Firpo, Laura Salvetti, anch'essa non risparmiata dalle critiche dei gemelli per la sua pretesa di presentarsi come sua "erede morale e intellettuale" (p. 134) e anche perché "dopo la sua scomparsa quella donna si affacciò talora per ragioni pratiche nelle nostre vite" (p. 135), così come non è risparmiato Vincenzo Ramella, zio materno di Firpo padre, liquidato come un rozzo parvenu (cfr. p. 114). A dire il vero, questa povera signora di umile estrazione sociale, lasciata sola dal marito Oreste e legatissima all'unico figlio Gigi, nella cui educazione e promozione sociale aveva investito tutti i suoi modesti risparmi e tutta se stessa, nonostante il trattamento sprezzante riservatole dagli Autori, può risultare a tratti financo simpatica al lettore! O comunque si può provare verso di lei una certa empatia, tenuto conto di tutto quello che senz’altro avrà passato nella sua non facile vita. Eppure i gemelli Firpo le rinfacciano con asprezza cose che appaiono tutt'al più “folkloristiche” come il fatto che definisse “Col branco ‘d nòbil” (p. 112) i discendenti di casa Pomba, a partire dalla nuora Lucia Merlini – che da parte sua definiva i parenti popolani del marito “gli stronzi” (p. 115) –, o che occasionalmente durante le festività natalizie pretendesse di portare con sé i due (per loro stessa ammissione) viziatissimi e vergognosissimi nipotini “al Cottolengo con il compito di trascinare una cassa di cartone contenente 100 panettoncini monodose da distribuire fino ad esaurimento in un reparto di bambini infelici, disabili, malati” (p. 121).  Ma naturalmente il peggior trattamento tra i personaggi evocati dal libro è riservato a Luigi Firpo, del quale si sottolineano l’opportunismo (la stessa scelta di corteggiare e poi sposare la madre dei gemelli, rampolla di cotanta famiglia, è giudicata opportunistica), le contraddizioni e la “schizofrenia morale” (p. 128), demolendolo anche sul piano intellettuale e scientifico: 

egli non seppe mai scrivere un libro vero, un libro importante, neanche su Tommaso Campanella, cui dedicò una miriade di studi fondamentali (…) Ma scrivere un libro vero, un libro fatto di problemi storici e storiografici lo avrebbe costretto a lasciare il terreno rassicurante dell’erudizione e della filologia, in cui era maestro, e della penna sopraffina, di cui era compiaciuto prestigiatore, per trasferirsi invece su quello della riflessione originale (…) Il che però non era nelle sue corde (…) (pp. 128-129)

Firpo padre, in quanto “indubbiamente molto intelligente, ma anche troppo opportunista per avere qualche punto di riferimento valoriale in cui credere, troppo compiaciuto di sé per pensare di avere qualche obbligo di coerenza, troppo incapace di scorgere qualche contraddizione nel perseguire sempre e solo il proprio interesse per avere nell’animo qualche sensibilità etica” (p. 133), sarebbe stato anche un personaggio decisamente invidioso e rancoroso, oltre che crudele verso la prima moglie, costantemente maltrattata sul piano morale e persino, almeno una volta, sul piano fisico (p. 111), e disinteressato verso i figli. Per di più sarebbe rimasto segretamente nostalgico del fascismo e velatamente antisemita! A riprova della sua indole rancorosa e invidiosa, quando Franco Venturi pubblicò il primo volume di Settecento riformatore, la reazione di Luigi Firpo, di fronte all’entusiasta e poi attonito figlio Massimo, sarebbe stata laconica e truce:

Quando uscì il primo volume del monumentale Settecento riformatore il giovane apprendista storico mostrò tutto fiero a suo padre la copia che l'autore gli aveva donato con tanto di dedica, ottenendone come risposta l'indegno commento: "Quel bastardo ne ha scritto un altro!" (p. 131) 

Sprezzanti poi le considerazioni di Firpo padre, lasciate in un dattiloscritto datato 1969, conservato nel suo archivio personale e recuperato dai gemelli, nel ricordare l’amico anglista Gabriele Baldini, secondo marito della grande scrittrice Natalia Ginzburg, vedova dell’altrettanto grande Leone Ginzburg e madre dell’insigne storico Carlo Ginzburg: 

"sposò, Dio sa perché, Natalia Ginzburg, ebrea, vedova con tre figli, scrittrice di un dubbio esibizionismo, donna di rara bruttezza, pigrizia e disordine. Ne ebbe una figlia ebete che fu la tragedia della sua vita per un complesso di rimorso, pietà di sé, lacerante sconfitta". (p. 101)

Gli Autori, che definiscono queste parole “atroci”, aggiungendo “che si leggono a fatica per la volgarità e l’evidente antisemitismo che trasmettono”, non tralasciano di aggiungere che a loro parere l’adesione al fascismo di Luigi Firpo fu qualcosa di più degli “errori di gioventù comuni a molti” (ancora p. 101), lasciando intendere che il padre fosse rimasto un po’ nostalgico del regime, ricordando la sua adesione convinta allo stesso fin dagli studi liceali e poi universitari, attestata dalla costante partecipazione ai Littoriali, dal suo entusiasmo per le leggi razziali e da molti scritti giovanili, alludendo a un suo impiego come ufficiale in pieno servizio nell’esercito della RSI ancora nel 1944, e commentando così la sua successiva fuoriuscita dalla militanza fascista: 

Non sappiamo in che modo, nel disfacimento politico causato dall’avanzata militare angloamericana, fosse infine riuscito come tanti a deporre la divisa e nascondersi da qualche parte, ma resta il sospetto che ciò abbia comportato qualche episodio poco edificante se una volta nostra madre, lasciando appositamente cadere per terra dei piatti, lo pregò di non raccontarcelo. (pp. 103-104)

Se l’immagine complessiva di Luigi Firpo esce davvero distrutta da questo libro, non è neppure particolarmente edificante il ritratto che Alessandro e Massimo Firpo tracciano della loro madre Lucia Merlini, 


che non aveva mai una lira in tasca, un po’ perché suo marito o ex marito poco o nulla le dava e un po’ perché, di qualunque somma di denaro potesse disporre, anche il regno del Siam o le miniere di Golconda, la dissipava entro 24 ore per il semplice gusto di spendere. (p. 155) 

Lucia quindi dipendeva in tutto e per tutto dalle generose elargizioni di Carlo Verde, nei confronti del quale ella, come altri parenti “fu certo asfissiante” (p. 157). Ma nonostante ciò lo zio Verde 

dava a piene mani e a pieno portafoglio, ma non prima di aver srotolato davanti al questuante di turno un grosso involto di ricevute bancarie per l’acquisto di Bot e Cct che teneva nel cassetto, proferendo ad ogni giro: “Vedi a me non importa affatto”, e intanto srotolava, “non ti preoccupare, di che cosa hai bisogno?”, “come vedi non mi fa tanta differenza”, tanto “dopo non sarò né più povero né più ricco”. E continuava a srotolare. (pp. 157-158)

Una storia triste, quella di Lucia Merlini, nonostante la relativa opulenza in cui poté vivere. Raggiunti i cinquant'anni e ormai sistematisi i figli, come loro stessi raccontano, si trasferì a Roma e quindi in India, invecchiando “male e in fretta, tormentata da ansie, inquietudini, nevrosi, dipendenza da fumo, farmaci e barbiturici che consumava in modo irresponsabile, al punto di dover essere ricoverata di tanto in tanto in cliniche specializzate” (p. 156). Il congedo che i gemelli Firpo le rivolgono, pur cedendo a qualche tenerezza, è a tratti davvero impietoso:

Cara mamma, eri proprio incontenibile nel buttare i soldi dalla finestra, pochi o tanti che ne avessi, ingenuamente incontenibile, adorabilmente incontenibile: crediamo che tu sia stata l’unica persona al mondo ad aver fatto dei debiti per comprarsi due paia di bellissimi stivali su misura mentre ci chiedevi di rompere il salvadanaio perché il frigorifero era rotto e bisognava sostituirlo, spiegando poi che quegli stivali erano così belli che non avevi saputo resistere. (p. 155) 

Peggio ancora se la passano nel giudizio dei gemelli Firpo i di lei fratelli e quindi loro zii materni. Il tutto nel quadro di quella che sembra quasi una totale distruzione dell'immagine dei Merlini, la famiglia materna, che fa da contraltare alla demolizione di Firpo padre e di tutta la famiglia paterna. 
Un altro bersaglio che, in questo insolito e sorprendente libro, i gemelli colpiscono con una ferocia quasi assimilabile a quella rivolta contro il padre è infatti Gianni Merlini, successore di Carlo Verde alla guida della Utet, additato, forse non con tutti i torti, come il principale responsabile del declino e del tracollo finale di questa gloriosa casa editrice. Un certo astio si nota particolarmente da parte di Massimo Firpo in quanto Gianni Merlini è identificato come responsabile indiretto del suo precoce e repentino licenziamento dallo staff editoriale della Utet quand’egli era uno studente poco più che ventenne. Il licenziamento fu comunicato al futuro professore di storia moderna direttamente dallo “zio Verde” in persona, con toni decisamente perentori: 

"Ti sarei grato se da domani non venissi più in ufficio; ti verranno comunque pagate le tue competenze per tutto il mese; non ho altro da dirti; puoi andare." (p. 190) 

Massimo Firpo percepì quella decisione dello "zio Verde" come “un colpo durissimo, tanto più venendo da lui, amato come un padre” (ancora p. 190). Alcuni anni dopo, alla metà degli anni Settanta, lo stesso “zio Verde” avrebbe rivelato all'allora giovane storico in carriera, peraltro nel frattempo da lui "risarcito" con “il dono di un bell’appartamento” (p. 191), quelli che sarebbero stati i motivi dietro a tale inaspettato licenziamento: 

"Ah sì, ora ricordo, fu quel coglione di tuo nonno [Raffaele Merlini] che  venne a supplicarmi di far fuori uno di voi, dicendomi che Gianni [Merlini] aveva paura che quei due ragazzi in gamba potessero stritolarlo" (ancora p. 191)

Le critiche nei confronti di Gianni Merlini volgono quasi in una totale demonizzazione del personaggio. La sua ascesa ai vertici coincide con il rapido declino della Utet, anticipato peraltro dai profondi mutamenti sociali degli anni Settanta, quando lo "zio Verde" era ancora saldamente al timone:

I vorticosi mutamenti di quegli anni, insomma, parevano rendere sempre più obsoleta la rocciosa tradizione culturale che si esprimeva con la pacata voce della Utet, la cui clientela era sempre meno disposta a credere che l’acquisto di un’enciclopedia, di grandi opere di sintesi, di classici della letteratura potesse davvero essere utile a garantire un futuro migliore ai propri figli, o almeno a nobilitare la propria immagine. (p. 229)

In questo contesto del tutto nuovo, Gianni Merlini, il quale, da erede designato secondo le “regole dinastiche della famiglia” (p. 241), prese le redini dell’ azienda nel 1981, dopo che in quell’anno un colpo apoplettico aveva messo definitivamente “fuori combattimento” lo “zio Verde” (che morì poi nel 1985, all’età di 90 anni), sarebbe stato “la persona meno adatta per avviare un nuovo corso” (p. 236). A lui è attribuita, in riferimento alla scelta di riutilizzare, di fatto riciclandole, le voci del Grande Dizionario Enciclopedico per la riedizione aggiornata dell’Enciclopedia universale dell’arte, l’affermazione non proprio encomiabile: “Tanto le nostre opere non le apre mai nessuno; e nessuno se ne accorgerà” (p. 236). Incapace e cinico nel giudizio spietato dei gemelli Firpo - che gli attribuiscono anche l’affermazione: “non c’è differenza tra vendere libri e carne in scatola” (p. 249) -, il suo errore più grande, nonostante l’avveduta scelta di diversificare le attività della Utet,  sarebbe stata l’acquisizione, alla lunga non sostenibile, di Garzanti. A Gianni Merlini, definito “uomo ambizioso e senza talento” (p. 257), è rimproverato anche l’eccessivo autoritarismo nella guida dell’Azienda. Con il peggioramento dei conti, esplosero anche i già non semplici rapporti all’interno della famiglia: in particolare Alessandro Firpo, con un gesto clamoroso, si dimise dall’incarico di direttore commerciale della UTET. I gemelli Firpo riuscirono poi a uscire dal capitale dell’azienda, limitando i danni, nel 1998, un anno prima della morte di Gianni Merlini, scomparso all’età di 70 anni nel 1999. Il resto è triste e ben nota storia recente. L’ultimo presidente della Utet tra i discendenti di casa Pomba fu Cesare Merlini, designato nel 1999 all’indomani della morte del fratello Gianni. Nel 2002 la dissestata Utet fu acquistata dalla De Agostini e successivamente smembrata. Nel 2020 la Utet Grandi Opere, ovvero l’erede più diretta della tradizione più che bicentenaria delle benemerite attività editoriali dei Pomba e dei loro discendenti, cessò di esistere, avendone il Tribunale di Torino dichiarato il fallimento. I gemelli Firpo registrano con amarezza, ma anche con spietata trucidità, come il tramonto e il disfacimento della famiglia corra parallelo al declino della casa editrice nella quale la famiglia stessa si identificava. Non vogliamo sprecarci anche noi in paragoni letterari, ma sembra quasi la rievocazione in salsa parodistica e farsesca di un romanzo di Gabriel García Márquez.  
Tornando ancora alle beghe familiari, che tanto spazio hanno in questo volume, offuscando un po' tutto il resto, “maltrattati” tanto quanto Gianni Merlini sono gli altri due fratelli della madre degli Autori, ovvero Cesare Merlini, cui abbiamo appena accennato in quanto ultimo presidente della Utet appartenente al lignaggio di casa Pomba, e Francesco Merlini. Cesare, docente universitario di ingegneria nucleare, dimessosi dall'università nel 1985 per dedicarsi a tempo pieno alla politica (seguace di Altiero Spinelli, nel 1976 “ereditò” da questi, in quell’anno eletto in Parlamento, la direzione dell’Istituto per gli affari internazionali), è ampiamente sbeffeggiato per le sue manie di protagonismo (p. 216: “quello che a lui importava di quel mondo era esserci, vedere ed essere visto, riconoscere ed essere riconosciuto, indurre a credere di essere importante, e, in definitiva, crederci lui stesso”; p. 217: “Zio Verde ne aveva scarsissima stima, lo giudicava della stessa stoffa del padre e si divertiva a fare battute, dicendo che quando i due erano insieme li si poteva scorgere anche da lontano e a fari spenti tanto era il baluginare della luce emanata dal fosforo che nutriva i loro cervelli”). Di Francesco Merlini, invece, e questo desta perplessità, è quasi stigmatizzata l’omosessualità, che si sarebbe tradotta anche in una fastidiosa attrazione verso i gemelli suoi nipoti, rispetto ai quali non era molto più vecchio, essendo nato nel 1940, mentre i gemelli Firpo sono del 1946: 

in piena tempesta ormonale e fisicamente ben diverso da noi bambini ancora impuberi, assumeva atteggiamenti alquanto sgradevoli. La cosa si esaurì in breve tempo, per fortuna, perché Francesco non tardò a orientare verso altri e più soddisfacenti lidi quelle che poi comprendemmo essere le sue malcelate tensioni sessuali, che tra l’altro indussero i nonni a non mettergli più in camera dei fanciulli innocenti. (p. 218) 

Allucinante appare la ricostruzione di una successiva visita, alla metà degli anni Settanta, di uno dei gemelli Firpo, ormai adulto e padre di un bambina di tre anni, allo zio Francesco che nel frattempo aveva trasferito la sua dimora a Montemagno di Calci, nei pressi di Pisa, “in quella strana casa in cui i bagni non avevano porte per celebrare la libertà dei corpi” (p. 220). L’esperienza, decisamente disastrosa, è narrata con toni tra l’impressionistico e il truce che, non meno di altri passaggi del libro, lasciano di stucco il lettore:

All’indomani del suo arrivo, infatti, quel “disgraziato” (così ebbe a definirlo con compassionevole perspicacia nonno Nino) ebbe la bella idea di fare uno scherzo comparendo d’improvviso travestito da strega, con una lunga tunica, nasone adunco e bitorzoluto, cappellaccio a punta e scopa, correndo e urlando all’impazzata dietro la bambina che ne fu terrorizzata. Il padre la prese in braccio, la consolò, e se ne andò in gran fretta senza neanche salutare quell’imbecille, ben contento che a prendersi cura di lui fino alla morte – dopo che ogni rapporto con la famiglia era stato troncato – fosse un’amica del cuore, cui dobbiamo essere gratissimi (…) Una morte prematura, la sua, prima della quale tuttavia fece in tempo a dilapidare in pochi mesi la montagna di denaro stupidamente consegnatagli dai fratelli dopo la morte dello zio che con la consueta saggezza, conoscendone la sostanziale irresponsabilità, lo aveva fatto escludere dall’eredità delle azioni Utet. (p. 220)

Vale la pena ricordare che Francesco Merlini fu scrittore e militante radicale che, di concerto con l'amica Laura Fossetti, recentemente scomparsa (cfr. Valerio Meatini, Addio a Laura Fossetti, traduttrice di Orazio, "Il Tirreno", 12/12/2023), si spese molto, in anni difficili, per la difesa dei diritti degli omosessuali e per altre non banali battaglie civili. 
In conclusione, che "dire" di più, dopo aver già fatto così tanto “parlare” il libro? Molto, se non tutto, si commenta da sé. Si può senz’altro concordare col giudizio espresso da Pier Franco Quaglieni che, commentando il libro fresco di stampa (Firpo, un mito diventato farsa, 09/10/2022), ha sottolineato come Alessandro e Massimo Firpo vi “massacrano letteralmente il padre con una serie di notizie e notiziole che finiscono nella bega famigliare e nel pettegolezzo”, puntualizzando:

È meglio che cali un silenzio pietoso su Luigi Firpo, malgrado il libro un po’ “maramaldesco“ pubblicato da Aragno che come editore corsaro  non finisce mai di stupire. La sua opera di studioso è già da tempo archiviata  nell’oblio e questo è l’aspetto importante. Il resto finisce per essere un po’ un codardo oltraggio, come fu un servo encomio quello di  tanti anni fa di molti  allievi, d’Orsi in testa, il gramsciano per eccellenza. Precisando ovviamente che Firpo non fu certo Napoleone.

Il “silenzio pietoso” tuttavia non è affatto calato, tant’è che Massimo Firpo dimostra di non voler mollare l’osso, ritornando recentemente sull’argomento in una intervista dal significativo titolo “Amo la Storia grazie a Venturi e nonostante papà” (La Repubblica - Torino, 01/04/2024). D’altro canto, il tutto, come ha sottolineato ancora Quaglieni (L’omosessualità di Sarpi alla Fondazione Firpo, 27/04/2023), non ha avuto nessun impatto sulle attività della Fondazione Luigi Firpo, attiva dal 1989 e "legata al nome e alla multiforme attività scientifica di Luigi Firpo" (www.fondazionefirpo.it). Della Fondazione – forse è pleonastico ricordarlo ma lo facciamo lo stesso – la Famiglia Firpo (inclusi Alessandro e Massimo) è membro fondatore, Massimo Firpo è stato a lungo consigliere scientifico e vari suoi allievi sono stati borsisti. Giusto un umile dubbio finale, la risposta al quale è da lasciare ai posteri e agli eventuali biografi futuri: ma nelle loro vite personali e professionali gli Autori, a partire da Massimo che del padre ha ripercorso le orme sul piano professionale, svolgendo il medesimo mestiere di docente universitario di Storia, e dal quale, in quanto storico, ci si aspetterebbe un maggior equilibrio nelle ricostruzioni e nei giudizi, pensano di aver aver avuto condotte nel complesso tanto migliori, mutatis mutandis, non vogliamo dire del molto postumamente vituperato padre, ma piuttosto dei vari, altrettanto postumamente, vituperatissimi parenti di cui si ergono a implacabili giudici e di non aver nulla, ma proprio nulla, da farsi rimproverare, a partire da queste loro memorie? Forse non sarà meglio che un silenzio pietoso cali anche su questo libro e su di loro, specie sullo storico?

Alessandro e Massimo Firpo, Lo "zio Verde", la Utet e altre storie di famiglia, Aragno, Torino 2022, pp. XV-302.

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