Non si tratta di un innocuo album dei ricordi, ma di un atto d’accusa, o meglio di una serie di atti d'accusa spietati. Luigi Firpo, il padre dei gemelli, non è semplicemente ritratto come un opportunista incapace di scrivere un libro autentico, prigioniero di una “schizofrenia morale” (p. 128) che gli impediva sistematicamente di distinguere tra il giusto e l’utile. Nelle pagine del memoir emerge un profilo ben più cupo e inquietante: un padre assente e disinteressato ai figli, un marito crudele non solo sul piano verbale ma anche su quello fisico, un uomo capace di infliggere umiliazioni e sofferenze alla prima moglie senza alcuna remora. La sua relazione con la madre, Angiola Ramella, appare intrisa di morbosità, con una dipendenza affettiva che i gemelli rievocano con toni di disprezzo. È il ritratto di una figura dominata dall’opportunismo, dall’egocentrismo e da un rancore costante, che non risparmia né la vita privata né l’attività pubblica e intellettuale. Anche l'immagine del ramo materno, la famiglia Merlini, è distrutta: riguardo il nonno materno Raffaele Merlini, si sembra assecondare la definizione di "coglione" (p. 191) che gli sarebbe stata data dallo zio Verde; la madre dei gemelli Lucia Merlini appare distante e anaffettiva e non si manca di porre l'accento sulle sue dipendenze e sui suoi ricoveri in case di cura specializzate; Cesare Merlini viene tratteggiato come figura pomposa marginale; Francesco Merlini è ridotto a comparsa caricaturale (e se ne stigmatizza addirittura l'omossessualità); la figura di Gianni Merlini è oggetto di una vera e propria demonizzazione: dipinto come ambizioso ma senza talento, cinico e autoritario, la sua guida coincide con il rapido declino della UTET, fino al tracollo finale, specchio del disfacimento della stessa famiglia. Neppure lo “zio Verde” (Carlo Verde) esce del tutto illeso: dietro la riconoscenza proclamata dai gemelli, affiora infatti un risentimento mai sopito. Non gli viene perdonata la freddezza con cui comunicò a Massimo l’estromissione dall’azienda, né l’opacità di certi aspetti gestionali. La sua posizione gli consentiva infatti di garantirsi compensi consistenti senza dover rendere conto a nessuno, anche grazie a un sistema contabile rodato che lasciava ampi margini di discrezionalità e che il Consiglio di amministrazione non era in grado di controllare davvero. E ridicolizzata è la di lui bonaria e premurosa moglie (Anna Raseri, detta Carla), "buona e generosa, ma poco intelligente e priva di ogni cultura, capace di infilare ogni tanto nei suoi discorsi parole molto volgari, udite chissà dove, del cui significato non aveva la più pallida idea, compiendo così memorabili gaffes" (p. 203). Tra queste, gli Autori ricordano un episodio durante una cena a casa Verde, alla presenza del cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino: mentre attorno alla tavola calava un momento di silenzio imbarazzato, con i presenti incapaci di trovare uno spunto di conversazione, la donna pensò bene di rompere l’attesa esclamando con aria festosa: “Mah! viva la foca, che Dio la benedoca [sic]!” (p. 204), lasciando attoniti tutti i commensali, a partire dal porporato che "si trasformava in una statua marmorea", e scatenando l'ilarità di un domestico "che si mise a ridere sgangheratamente, del tutto a ragione, ma certo complicando ancor più la tragicomica situazione, poi risolta poco dopo dal precoce commiato di Sua Eminenza" (ancora p. 204).
Il risultato, lungi dal memoir classico, è un catalogo di demolizioni, un regolamento di conti senza filtri che sconfina spesso nel trash letterario: non tanto per i temi trattati, quanto per il tono volutamente scandalistico, compiaciuto nel rovesciare rancori privati sulla scena pubblica. Talvolta, più che a un memoir, sembra di assistere a un copione da cinepanettone o a un pezzo di cinema spazzatura, con figure grottesche e caricaturali presentate in serie, come in una pellicola destinata più a suscitare voyeurismo che riflessione storica. Non sorprende, dunque, che gli stessi Autori ammettano candidamente: “ci rendiamo conto di quanta prepotenza di classe, di quanta razza padrona ci sia in questi ricordi e ne facciamo ammenda” (p. 197).E l’aspetto più delicato è che a guidare questa operazione è Massimo Firpo, storico di fama. Per decenni conosciuto come studioso rigoroso, analitico ed equilibrato, con questo libro egli compromette gravemente la propria reputazione: agli occhi del lettore non appare più lo storico distaccato, ma il protagonista diretto di una resa dei conti privata trasformata in spettacolo trash.
È proprio questo il nodo. In Italia la vicenda ha fatto scalpore ma è rimasta confinata; nel mondo anglosassone, invece, dove vale seriamente il proverbio “don’t air your dirty laundry in public” e il lavaggio dei panni sporchi familiari davanti a tutti è considerato un gesto indecoroso, un’operazione del genere verrebbe percepita come una rottura scandalosa, in netto contrasto con l’immagine di serietà che un personaggio come Massimo Firpo, da storico e accademico insigne, ha sempre ostentato come tratto distintivo.
Ecco perché abbiamo deciso di tradurre questo intervento in inglese. La traduzione non è un semplice esercizio linguistico: è il modo per mostrare come un gesto di tale portata, che mina la reputazione di uno storico di primo piano, possa essere interpretato e discusso a livello internazionale. Non è solo la storia della famiglia Firpo-Merlini, ma un caso emblematico di come la memoria privata, quando resa pubblica, possa ribaltare l’immagine di un intero percorso accademico – scivolando, per giunta, verso il trash da cinepanettone, più vicino al cinema spazzatura che alla storiografia.
Peraltro, non si può eludere un interrogativo che questo memoir, forse involontariamente, apre: quale peso hanno avuto simili tratti caratteriali – asprezza, contraddittorietà, ossessione per i giudizi morali – nel lungo percorso accademico di Massimo Firpo? Per decenni ordinario di Storia moderna, coordinatore di un prestigioso dottorato in Studi Storici presso l'Università di Torino, infine approdato alla Scuola Normale di Pisa, egli ha esercitato un’influenza decisiva sul reclutamento e sulla formazione di almeno un paio generazioni di studiosi (e delle scelte fatte e/o influenzate deve assumersi piena responsabilità scientifica e morale). Chi lo ha conosciuto nelle sue contraddizioni non può non restare colpito nel leggerlo oggi scagliarsi contro la “schizofrenia morale” del padre: quasi che certe ombre genitoriali fossero state, nonostante la denuncia decisamente postuma, interiorizzate e trasmesse.
Se l’intento principale del libro era quello di abbattere per sempre la memoria di Luigi Firpo, il risultato è un boomerang velenoso. La furia demolitrice non solo travolge il padre, ma finisce per corrodere dall’interno anche l’immagine della sua prole, e in particolare di Massimo, che da storico di prestigio si espone come protagonista compiaciuto di un teatro di rancori, più vicino al trash che alla storiografia. In questa giostra di accuse e recriminazioni, la vera vittima non appare tanto o soltanto Luigi Firpo, quanto la credibilità del suo erede più illustre. Distruzione, dunque, o autodistruzione? La risposta sembra già scolpita tra le righe del libro. Ed è anche per questo - lo ribadiamo - che abbiamo scelto di tradurre in inglese la nostra recensione: una storia così intrisa di contraddizioni, che coinvolge uno studioso di fama internazionale, non può restare confinata all’Italia, ma merita di essere sottoposta al vaglio di una comunità scientifica più ampia.
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