Populismo e monarchia: il caso duo-siciliano

Recensione a Marco Meriggi, La nazione populista. Il Mezzogiorno e i Borboni dal 1848 all'Unità, Il Mulino, Bologna 2021

di Armando Pepe

Nasce da un’accurata ricerca archivistica il libro La nazione populista, recentissima fatica di Marco Meriggi, storico delle istituzioni politiche presso l’ateneo fridericiano. Pare singolare il fatto che molte migliaia di persone abbiano raccolto firme (e segni d’assenso dagli analfabeti) per privarsi delle garanzie costituzionali concesse nel 1848 da Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie. Eppure è successo. Quando la capacità propulsiva dell’energia rivoluzionaria stava per svanire, una mobilitazione popolare di imponente portata si sviluppò con forza al fine di privarsi volontariamente di un diritto acquisito. Un apparente controsenso che aveva una propria ragione, come vedremo in seguito. Preliminarmente l’Autore dichiara la provenienza delle fonti, da cui trae una solida documentazione, sceverata con estremo rigore interpretativo: «Conservati nell’archivio familiare, che Francesco II di Borbone, al momento di abbandonare nel 1860 il regno, portò con sé in esilio, e corredati dalle firme dei sottoscrittori, gli indirizzi anticostituzionali del 1849-1850, nelle loro varie versioni, riempiono oltre trenta fasci del Fondo Borbone» (p. 25). Il dato quantitativo (2283 indirizzi) fa comprendere al lettore la qualità della ricerca condotta nell’Archivio di Stato di Napoli. L’ondata anticostituzionale dilagò rapidamente per tutto il regno duo-siciliano e da ogni dove giunsero al re petizioni ad opera di alacri notabili locali. L’Autore delinea le condizioni sociali, facendo riemergere dalle carte personaggi dimenticati e tutto appare più chiaro e funzionale al discorso. In terra irpina si diede un gran daffare Giovanni Sbordone, «comandante, nel paese di Cervinara, di quel corpo di milizia civica che dal febbraio 1848 ha assunto in tutto il regno il nome di guardia nazionale, e che però sta invece cominciando ovunque a riprendere il nome tradizionale di guardia urbana, e, insieme ad esso, la pure tradizionale fama legittimista che ha accompagnato la sua storia prequarantottesca» (p. 46). In Abruzzo, precisamente nel distretto di Avezzano, s’incontra un altro fervente legittimista, Innocenzo Corbi, la cui intensa attività, talvolta parossistica, al pari di quella di Sbordone, dava fastidio alle autorità governative periferiche. Sbordone e Corbi, per usare un paradosso, sembravano più realisti del re; certamente, come ben mette in risalto Meriggi, il loro attivismo, non scaturendo da sincero slancio legalitario, aveva il fine ultimo di accreditarsi, agli occhi delle istituzioni, al fine di ottenere cospicue prebende. Ne risultò l’affermazione di una borghesia reazionaria che, evidentemente, entrava in contrasto con la parte più avanzata della società civile. «Sbordone e Corbi non erano stati dunque i soli a sollecitare dal basso le prese di posizione anticostituzionali, anche se le loro storie avevano suscitato più scalpore. Anche altrove, una miriade di altre figure s’era messa in moto con la medesima finalità, e, per quello che ci mostrano le fonti, senza che ciò comportasse la loro appartenenza alla medesima rete organizzativa, ma, piuttosto, in forza di un meccanismo di emulazione che varcava agevolmente i confini distrettuali e provinciali» (p. 63). I moventi delle petizioni rispondevano a diverse esigenze, convergendo tuttavia verso il medesimo scopo; era una militanza nata dal basso che marcava la saldatura tra il trono e il popolo, calpestando l’evoluto concetto di cittadinanza ed esautorando le facoltà dei corpi intermedi. Si creò una forma di populismo molto pericolosa, che esplose appena dopo l’unità d’Italia, negli anni della lotta al brigantaggio. Il clero, come sottolinea l’Autore, fu in prima linea, condividendo la stessa visione codina ed oscurantista. Addirittura molte furono portate personalmente al sovrano, mentre soggiornava presso la reggia di Caserta, cosa non facile da un punto di vista sia logistico sia burocratico, «nel regno, infatti, la libertà di circolazione era soggetta a limitazioni, e per varcare legalmente i confini tra una provincia e l’altra era necessario disporre di una carta di passaggio per l’interno, il cui ottenimento obbligava a sottoporsi a una fastidiosa trafila amministrativa» (p. 87).  Anche alcune donne firmarono le petizioni, «cercando di tirare qualche conclusione, venti donne tutt’al più» (p. 119). Nel lungo 1848 ci furono molte petizioni, non solo in senso reazionario, ma anche quelle reclamanti un minimo di apertura democratica, e più diritti, all’interno delle comunità locali; una petizione, stilata nel distretto di Avezzano, recava in calce anche la firma di Innocenzo Corbi, che, non potendo essere un doppelganger, è da considerarsi molto verosimilmente il medesimo promotore legittimista borbonico di pochi mesi dopo. Meriggi, oltre alle petizioni, affronta diversi argomenti, facendo in punto di diritto una disamina delle istituzioni comunali, del loro rapporto con le autorità centrali, ricordando le disperate condizioni in cui viveva il popolo, costretto nella miseria morale, «al momento dell’unificazione nazionale, dunque circa 10 anni più tardi, l’86% della popolazione meridionale di età superiore ai 15 anni è analfabeta. Lo sono l’89% dei lucani, l’88 % dei calabresi, l’82% dei campani» (p. 103). Notevole è la riflessione sulla sovranità e sulla figura del monarca borbonico che, sia pure considerato sacro e inviolabile, finanche taumaturgo, come ben pose in evidenza Marc Bloch, cercava di entrare in empatia col popolo, mantenendo in vita le strutture amministrative create e consolidate in età napoleonica, durante il decennio francese, ma avocando a sé ogni potere decisionale. È da notare però, come sottolinea Meriggi, che, nonostante le istanze piovute incessantemente sulla corte regia, la costituzione formalmente rimase in vita, sebbene non operante, anzi lasciata cadere nel dimenticatoio; nel corso del «rapido precipitare degli eventi nell’estate del 1860, Francesco II – da pochi mesi sul trono al posto del padre defunto  fu costretto a riattivare in tutta fretta la costituzione che Ferdinando II nove anni prima aveva congelato, ma non  – come sappiamo – ufficialmente abolito» (p. 252). Unica nota dolente è la mancanza di un indice dei nomi, ma l’Autore ci ripaga con il consueto garbo e l’eccellente chiarezza espositiva, soprattutto quando ironicamente osserva l’anaciclosi neo-borbonica.

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