Non può esserci una seria opera
storiografica senza una solida base documentale, altrimenti inevitabilmente essa
presterebbe il fianco a contestazioni, lievi e marginali o pesanti e
inoppugnabili che siano. A maggior ragione, quando s’affronta un tema delicato,
quale il brigantaggio meridionale postunitario, bisogna procedere
sistematicamente, come ha fatto Marco Vigna, autore del libro “Brigantaggio
Italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita”, pubblicato di recente
dalla casa editrice novarese Interlinea, con prefazione di Alessandro Barbero.
Battendo un terreno delicato per via della quantità sterminata di fonti,
riferimenti e fatti, ricondotti ad organicità dal paradigmatico lavoro
esegetico di Carmine Pinto “La Guerra per il Mezzogiorno”, questo volume,
seguendone la scia, fa dello scavo archivistico (condotto da Giuseppe Perri) il
proprio punto di forza. Scritto con passione, che talvolta cede alla veemenza,
il testo offre molte chiavi di lettura ed altrettanti spunti, adeguatamente
sottolineati dai titoli ad inizio dei capitoli, prendendo l’abbrivo dalla
vessata questione interpretativa, rigettando in pieno la figura del “bandito
sociale”, forse verosimile in un film in bianco e nero con Amedeo Nazzari, ma
enormemente distante dalla realtà. All’autore appaiono giustamente obliterate
le argomentazioni del libro “Storia del brigantaggio dopo l’Unità” di Franco
Molfese, che spesso sembrano prese a prestito dalla militanza politica e
destano l’impressione di un retaggio ideologico che ne rende desultoria la
narrazione. Trova convincente, invece, l’analisi di Pinto, secondo cui il
brigantaggio postunitario è stato «una forma di guerra civile che s’inserisce
in un contesto cronologico e geografico che travalica l’Italia del 1861- 1870.
Essa [la guerra civile] sarebbe stata una fase del contrasto tra rivoluzione e
reazione iniziato alla fine del secolo XVIII e che avrebbe coinvolto l’Europa e
l’America assieme (pp.41-42)». Evidentemente lasciano il tempo che trovano le
posizioni ucroniche e distopiche da taluni sostenute. Nel secondo capitolo si
passano in rassegna alcune microstorie: la banda del sergente Pasquale Romano,
la banda Franco, di cui si elencano per intero i 164 capi d’imputazione (forse
sarebbe stato meglio metterli in una nota a piè di pagina), le bande Fuoco,
Pace e Guerra, la comitiva Ciccone, la comitiva Iacovone, la banda di Cosimo
Giordano (operante nel Matese), la banda Barone, la comitiva di Ninco Nanco, le
cui gesta collettive erano rivolte prevalentemente contro il popolo e contro la
media borghesia. Il campionario dei
reati era davvero ampio: omicidio, sequestro di persona, grassazione,
killeraggio, furti a iosa. A pagina 147 si conclude il secondo capitolo, ciò
rende la misura del lavoro (anche da un punto di vista prettamente materiale)
fatto da Marco Vigna e Giuseppe Perri. Nel terzo capitolo, di taglio
prevalentemente antropologico e in cui si parla di «antropofagia e stupro»,
talvolta si indulge al particolare macabro o granguignolesco, sia pure sostenuto
da una notevole messe di fonti, soprattutto letterarie. Si fa notare tuttavia
che la subcultura (senza alcuna accezione negativa) brigantesca vive nei
ricordi che ancora si tramandano oralmente nel Meridione. Il quarto capitolo
tratta del parallelismo tra brigantaggio e mafie, mentre il quinto della
«connivenza o del contrasto» che la società meridionale riservava alla figura
del brigante: si analizzano in particolare con sagacia le cause sociali del
brigantaggio, che nel Regno duo-siciliano era endemico come in altre parti
d’Europa. La lotta al banditismo non fu un’invenzione sabauda, ma già era
praticata dai napoleonidi, dai Borbone e prima ancora dai Viceré spagnoli,
quando fu istituito il Tribunale di Campagna. La disamina sociologica, portata
avanti con dovizia di particolari e che per i dati si serve di lavori
cronologicamente più vicini a noi (tra cui “Borbonia Felix” di Renata De
Lorenzo, e “Perché il Sud è rimasto indietro” di Emanuele Felice) tocca punti
fondamentali: abolizione del feudalesimo e suoi limiti, resistenza del latifondo
siciliano, diffusione della povertà nel Regno delle Due Sicilie, banditismo
nobiliare, ricostruzioni e reinterpretazioni romanzesche (come quella di Carlo
Levi in “Cristo si è fermato ad Eboli”, cui si potrebbe aggiungere quella
contenuta in “La conquista del Sud” di Carlo Alianello), che tanto hanno
contribuito alla creazione di una “verità” altra ed alternativa a quella
effettuale e realmente svoltasi. Nel sesto capitolo si torna alla repressione
del brigantaggio nella sua dimensione diacronica, dal medioevo all’età moderna
e contemporanea. Nel settimo e nell’ottavo capitolo, che è l’ultimo, si indaga
sulla tipologia dei briganti: pregiudicati e ricercati, disertori e sbandati,
brigantaggio come secondo lavoro (prassi usuale nelle zone interne, mi sia
consentito al riguardo di suggerire il libro “Appennino. Economie, culture e
spazi sociali dal Medioevo all’età contemporanea” di Augusto Ciuffetti),
arricchimento personale, costrizione, il mito del torto subito. Gli archivi di
Stato frequentati per la ricerca sono davvero molti, in testa quello di Torino
(ma anche quelli di Caserta, Napoli e Potenza) che si è rivelato ricchissimo di
fonti. In sintesi è un lavoro meritorio e che getta nuova luce su fatti vicende
censite e pertanto ignote.
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