di Patricia Chiantera-Stutte
Inizio queste poche righe con una richiesta di pazienza da parte del lettore, perché esse esprimeranno una replica alla discussione di un mio libro e pertanto potrebbero essere solo frutto di una polemica personale. Tuttavia credo che da questo caso personale possa emergere una questione che trascende la circostanza specifica, permettendo di porre interrogativi più ampi riguardo alla qualità di parte del dibattito storiografico attuale e riguardo al rispetto che ogni collega deve agli altri componenti della comunità scientifica.
Avrei voluto scrivere questa replica nella rivista che ha pubblicato l’articolo stesso, perché credo che le domande o stroncature debbano ricevere risposte e che le critiche a un lavoro di ricerca possano essere apertamente poste, a loro volta, al vaglio degli autori accusati. Credo, insomma, in modo ingenuo, nella necessità che la comunità scientifica sia aperta e che promuova un dialogo corretto ed equilibrato, anche e soprattutto quando gli interlocutori hanno idee e prospettive diverse. Purtroppo la possibilità di replica mi è stata negata dalla prestigiosa rivista che ha pubblicato l’articolo e me ne duole. Premetto, ancora, che non pretendo di guadagnarmi con questa replica un articolo che valga la tristemente famosa fascia A e che possa essere utile per i concorsi, poiché credo che saggi ed articoli scientifici, per essere tali, debbano apportare elementi nuovi di ricerca e, insomma, portare avanti il dibattito scientifico, e non possano solo limitarsi all’attacco e alla demolizione di altri lavori. Tuttavia non sono io a giudicare, e questa è una mia privata opinione che, come tale, può essere non condivisa.
Un grande epistolario è tale perché offre molti spunti per chi sa leggerli: costituisce un panorama variegato, di cui ognuno coglie un aspetto. Dall’insieme delle sensibilità di tutti gli interpreti, di tutti i lettori, può emergere, allora, un quadro più completo di un’epoca storica e di alcuni ambienti intellettuali. E così sarebbe, se i lettori dell’epistolario collaborassero insieme a comprendere meglio a partire dalle loro competenze ed esperienze di ricerca la collocazione delle lettere, il significato di alcuni passaggi, i “retroscena” di alcuni commenti.
Se la prima parte dell’articolo si sofferma sugli errori – dai refusi alla
collocazione delle note alla individuazione
di riferimenti – nella seconda parte dell’articolo D’Elia giudica in base ai
suoi parametri come avrebbe dovuto essere l’introduzione, per poi arrivare a
condannare l’intero libro, e a partire da quello la casa editrice della Normale
e la Scuola Normale di Pisa – e si ferma solo qui! L’introduzione alle lettere è respinta sulla
base dell’argomento che non tratterebbe il punto saliente dell’epistolario, che
si riferisce, secondo D’Elia, alla questione della datazione della traduzione
degli “Eretici italiani del Cinquecento” in tedesco e ai rapporti tra Cantimori
e gli intellettuali storici europei che giunge a frequentare. Vanno
sottolineate a tal riguardo alcuni errori metodologici: va ricordato che non
solo la curatrice afferma espressamente nell’introduzione che della vastità
degli argomenti trattati nelle lettere prenderà in considerazione solo due
temi: la diversità politica e caratteriale dei due corrispondenti e il loro
scambio riguardo al lavoro di ricerca storiografico. La curatrice, inoltre,
accenna ai rapporti internazionali di Cantimori e Kaegi e ai milieux storiografici che essi frequentano – e ne ha trattato ampiamente nel suo lavoro
precedente su Delio Cantimori uscito da Carocci nel 2011.
La domanda cruciale è allora: si è chiesto D’Elia se la differenza fra la sua interpretazione, che vede il significato precipuo dell’epistolario nell’indicazione delle date di edizioni e traduzioni e quella della curatrice non dipenda dalla diversa sensibilità e metodo storiografico? Se alla curatrice interessasse maggiormente la storia delle idee, e pertanto l’origine del metodo storiografico cantimoriano e per esempio del suo concetto di Rinascimento, piuttosto che la ricostruzione delle date delle traduzioni? Perché, mi chiedo, la lettura dell’epistolario Cantimori-Keagi in vista della comprensione della genesi e dello sviluppo delle loro idee storiografiche o delle loro concezioni storiche e politiche sarebbe sbagliata rispetto alla lettura di D’Elia, per il quale la datazione di una traduzione sembra l’unico apporto di 311 lettere? La storia è allora superiore in sé rispetto alla storia delle idee?
E i refusi, o/e gli “errori filologici”, sono tali e tanti da inficiare l’edizione di un intero epistolario? Aver saltato la frase “Come stanno Loro a Roma. Spero non troppo male. Ed a Pisa?” inficia il senso di tutte le lettere di Kaegi e Cantimori? Ritengo allora che, proprio perché D’Elia è stato così pungente e pignolo da sottolineare tutti gli “errori”, il lettore comprenderà da solo quanto quegli errori poco possano inficiare il valore dell’intera pubblicazione dell’epistolario. Del resto, come non rallegrarmi di essere in buona compagnia, giacché lo stesso Cantimori, come si legge nell’epistolario, chiede a Kaegi di modificare nomi e perfino le correnti di pensiero a cui essi appartengono nella nuova edizione tedesca del suo grande lavoro sugli eretici.Ho scritto che sarei stata grata a D’Elia, se egli mi avesse segnalato, come hanno fatto altri, alcuni errori, filologici o refusi – essendo la differenza spesso ignorata dal re-censore D’Elia. La questione però è che il re-censore, che si definisce “modesto manovale della ricerca”, si erge spesso a censore, nel momento in cui decide sia che cosa la curatrice avrebbe dovuto scrivere nell’introduzione, sia l’aspetto cruciale di tutto l’epistolario, sia che cosa la casa editrice della Normale debba o non debba pubblicare.
Il tono del “manovale della ricerca” diventa infatti quello di un vero inquisitore quando sancisce quasi la damnatio memoriae dell’intera casa editrice della Normale e dell’intera scuola Normale di Pisa, con tutte le facoltà gli istituti, e tutti fra impiegati e professori, per la pubblicazione del mio libro. La Normale diventa perciò – usando scaltramente le parole di Cantimori – “cucina di professori e impiegati” per aver pubblicato la curatela delle lettere di Kaegi e Cantimori da parte di una studiosa che dalla Normale non proviene. La considerazione smisurata di D’Elia del mio lavoro mi lusinga, e mi dispiace non poter rappresentare e personificare una prestigiosa casa editrice e perfino l’intera Scuola Normale, che mi precede di molti decenni e sicuramente continuerà ad esserci quando io e D’Elia non saremmo qui a tediare i lettori con queste banalità! Io sono solo una studiosa di provincia, che ha potuto usufruire dell’archivio della Normale e della Sacher Stiftung di Basilea e che può solo ringraziare la Normale e la Sacher per averle permesso di ricostruire lettera per lettera un percorso storiografico di due grandi figure di storici.
Al di là della polemica mi preme domandarmi che cosa apporti un’invettiva alla Normale al dibattito scientifico, quale progresso nei metodi storiografici o nella critica storica rappresenti un articolo, come quello di D’Elia, che ricostruisce i supposti errori di un testo, che siano refusi, fraintendimenti riguardo a figure secondarie, collocazioni di lettere non datate o di note o perfino errori filologici – e D’Elia dovrebbe gentilmente spiegare al lettore che cosa sono questi peccati mortali. Mi chiedo se una discussione pacata, una considerazione approfondita dei contenuti dell’epistolario, un tono meno censorio e più consono all’interlocuzione non avrebbero dato al lettore informazioni più preziose per comprendere il percorso intellettuale dei due grandi storici Cantimori e Kaegi rispetto a una lista di errori. Mi chiedo a cosa giovi ergersi a censore e condannare il lavoro di una collega – pensavo di meritarmene il titolo – invece che instaurare un dialogo fra pari, fondato sullo scambio, sul rispetto e sulla critica aperta e però attenta a non scadere nello scandalismo? Non parlo solo di forme: le forme in questo caso sono contenuti. Se anche i ricercatori usano toni da censori o da inquisitori, si sentono padroni di una “verità” che permette loro denigrare il lavoro di studio di altri studiosi, non vi è più differenza fra le liti da stadio e le discussioni accademiche. Forse giova tutto questo all’autore per avere un articolo in fascia A e non una semplice recensione?
E allora lo scadimento dei costumi potrebbe non risiedere nel fatto che un’istituzione prestigiosa come la Normale abbia permesso a una studiosa di provincia, una non-normalista, di accedere agli archivi e di curare un importante epistolario, che può e deve essere migliorato in alcuni dettagli che poco incidono sul lavoro complessivo. La decadenza è invece proprio il considerare da parte del recensore di dover produrre un articolo scientifico con il solo intento di censurare una pubblicazione, una curatela e perfino una cassa editrice e un’istituzione come la Normale, sulla base di una decina di errori chiamati “filologici”, senza che sia data all’autrice nemmeno la possibilità di replica.
L’autore dell’articolo, uno storico, e non storico delle idee, di questa grande varietà di temi non dà notizia: l’epistolario avrebbe per lui valore soprattutto in quanto mette in evidenza la periodizzazione della traduzione degli Eretici italiani di Cantimori in tedesco per opera di Werner Kaegi. Che ben venga questa interpretazione! Ma che dire di tutti gli altri spunti, che verranno sicuramente registrati da altri e a cui la curatrice accenna nella sua introduzione?
L’oggetto di questa mia replica è l’articolo uscito su “Nuova Rivista Storica” (fascicolo 1, 2023) di Nicola D’Elia, La corrispondenza tra Delio Cantimori e Werner Kaegi. Note su un’edizione infelice.
Parlerò dunque di un articolo di 10 pagine che si è cimentato a stroncare un epistolario di 311 lettere tra due grandi storiografi del Ventesimo secolo, Delio Cantimori e Werner Kaegi, senza nemmeno precisare l’apporto storiografico della loro opera, la complessa vicenda personale che ha portato all’intreccio del loro rapporto, il loro dialogo su argomenti affascinanti e diversissimi. L’epistolario che si snoda in più di trent’anni svolge temi ampi e centrali: dalla politica – dei partiti e dei governi – alla storiografia – rinascimentale e non solo – alla cultura, all’esistenza di ambienti storiiografici fecondi per lo sviluppo di tutta la storiografia novecentesca. Gli argomenti spaziano dalla discussione sulla concezione politica di Huizinga, alla polemica sui saggi di Antoni, dalla considerazione dell’importanza dei lavori storiografici e non, come quelli di Burckhardt, e di Weber, alla discussione sui concetti di umanesimo e rinascimento, tolleranza ed eresia, fino alla riflessione solo accennata sulle prime edizioni dell’opera di Gramsci e sulla politica del partito comunista italiano nel dopoguerra.
Così io sarei stata grata a Nicola D’Elia per i preziosi suggerimenti e per le sue critiche che avrei accolto con piacere e che avrebbero migliorato il mio lavoro. Sarei stata felice di poter usufruire di uno sforzo che arricchirebbe e correggerebbe quei punti interrogativi che non possono mancare in un’opera così vasta. Tuttavia D’Elia, che si definisce - come già ricordati - “modesto manovale della ricerca”, non desidera collaborare col suo prezioso tempo e ingegno a rendere migliore un lavoro di studio, ma desidera segnare con la penna rossa e blu tutti gli errori, diventando di fatto un censore, che in dieci pagine condanna senza dubbio la pubblicazione di 311 lettere che finora erano accessibili solo dagli studiosi che potevano recarsi a Basilea e a Pisa presso gli archivi Sacher e quelli della Normale. Non voglio rispondere a tutti i punti della sua minuziosa opera di correzione fitta e che riguardano talvolta banali refusi talaltra fraintendimenti. Certamente apprezzo i suoi suggerimenti per la sequela di alcune delle lettere non datate, che, seppur esattamente collocate negli anni e nel periodo, devono essere invertite. Lo ringrazio per la sua cura nel cercare con grande acribia tutti i riferimenti agli studenti di Kaegi, ad alcuni autori e alcune opere fra le tante citate nelle lettere. D’Elia, tuttavia, non si chiede se la collocazione delle note della curatrice, inoltre, potrebbe rispondere alla necessità di introdurre una nota corposa su un autore laddove si parli estesamente dello stesso. Sono queste scelte della curatrice su cui si può obiettare, ma che potrebbero essere viste con spirito interlocutorio e non inquisitorio. D’Elia sottolinea inoltre la mancanza di attenzione ad argomenti, aspetti e perfino parole che invece sono contenuti nell’epistolario: riguardo a una lettera di Cantimori che parla di anti-campana riferendosi allo storico Campana (come è già riportato nella stessa lettera e dalla curatrice) non coglie l’ironia e il gioco di parole del termine anticampana, o sottolinea la datazione della traduzione degli Eretici di Cantimori – datazione che è esatta ed è già riportata nelle lettere. Non si comprende dove sia l’errore o da dove nasca la sottolineatura di “errore blu” da parte del maestro. É inoltre chiaro che la fine dell’edizione degli eretici – e dunque di tutta la traduzione con correzioni e altro – sia successiva alla vera e propria traduzione di Kaegi degli Eretici di Cantimori e pertanto non si capisce perché questo fatto ovvio venga messo in dubbio.
La domanda cruciale è allora: si è chiesto D’Elia se la differenza fra la sua interpretazione, che vede il significato precipuo dell’epistolario nell’indicazione delle date di edizioni e traduzioni e quella della curatrice non dipenda dalla diversa sensibilità e metodo storiografico? Se alla curatrice interessasse maggiormente la storia delle idee, e pertanto l’origine del metodo storiografico cantimoriano e per esempio del suo concetto di Rinascimento, piuttosto che la ricostruzione delle date delle traduzioni? Perché, mi chiedo, la lettura dell’epistolario Cantimori-Keagi in vista della comprensione della genesi e dello sviluppo delle loro idee storiografiche o delle loro concezioni storiche e politiche sarebbe sbagliata rispetto alla lettura di D’Elia, per il quale la datazione di una traduzione sembra l’unico apporto di 311 lettere? La storia è allora superiore in sé rispetto alla storia delle idee?
E i refusi, o/e gli “errori filologici”, sono tali e tanti da inficiare l’edizione di un intero epistolario? Aver saltato la frase “Come stanno Loro a Roma. Spero non troppo male. Ed a Pisa?” inficia il senso di tutte le lettere di Kaegi e Cantimori? Ritengo allora che, proprio perché D’Elia è stato così pungente e pignolo da sottolineare tutti gli “errori”, il lettore comprenderà da solo quanto quegli errori poco possano inficiare il valore dell’intera pubblicazione dell’epistolario. Del resto, come non rallegrarmi di essere in buona compagnia, giacché lo stesso Cantimori, come si legge nell’epistolario, chiede a Kaegi di modificare nomi e perfino le correnti di pensiero a cui essi appartengono nella nuova edizione tedesca del suo grande lavoro sugli eretici.Ho scritto che sarei stata grata a D’Elia, se egli mi avesse segnalato, come hanno fatto altri, alcuni errori, filologici o refusi – essendo la differenza spesso ignorata dal re-censore D’Elia. La questione però è che il re-censore, che si definisce “modesto manovale della ricerca”, si erge spesso a censore, nel momento in cui decide sia che cosa la curatrice avrebbe dovuto scrivere nell’introduzione, sia l’aspetto cruciale di tutto l’epistolario, sia che cosa la casa editrice della Normale debba o non debba pubblicare.
Il tono del “manovale della ricerca” diventa infatti quello di un vero inquisitore quando sancisce quasi la damnatio memoriae dell’intera casa editrice della Normale e dell’intera scuola Normale di Pisa, con tutte le facoltà gli istituti, e tutti fra impiegati e professori, per la pubblicazione del mio libro. La Normale diventa perciò – usando scaltramente le parole di Cantimori – “cucina di professori e impiegati” per aver pubblicato la curatela delle lettere di Kaegi e Cantimori da parte di una studiosa che dalla Normale non proviene. La considerazione smisurata di D’Elia del mio lavoro mi lusinga, e mi dispiace non poter rappresentare e personificare una prestigiosa casa editrice e perfino l’intera Scuola Normale, che mi precede di molti decenni e sicuramente continuerà ad esserci quando io e D’Elia non saremmo qui a tediare i lettori con queste banalità! Io sono solo una studiosa di provincia, che ha potuto usufruire dell’archivio della Normale e della Sacher Stiftung di Basilea e che può solo ringraziare la Normale e la Sacher per averle permesso di ricostruire lettera per lettera un percorso storiografico di due grandi figure di storici.
Al di là della polemica mi preme domandarmi che cosa apporti un’invettiva alla Normale al dibattito scientifico, quale progresso nei metodi storiografici o nella critica storica rappresenti un articolo, come quello di D’Elia, che ricostruisce i supposti errori di un testo, che siano refusi, fraintendimenti riguardo a figure secondarie, collocazioni di lettere non datate o di note o perfino errori filologici – e D’Elia dovrebbe gentilmente spiegare al lettore che cosa sono questi peccati mortali. Mi chiedo se una discussione pacata, una considerazione approfondita dei contenuti dell’epistolario, un tono meno censorio e più consono all’interlocuzione non avrebbero dato al lettore informazioni più preziose per comprendere il percorso intellettuale dei due grandi storici Cantimori e Kaegi rispetto a una lista di errori. Mi chiedo a cosa giovi ergersi a censore e condannare il lavoro di una collega – pensavo di meritarmene il titolo – invece che instaurare un dialogo fra pari, fondato sullo scambio, sul rispetto e sulla critica aperta e però attenta a non scadere nello scandalismo? Non parlo solo di forme: le forme in questo caso sono contenuti. Se anche i ricercatori usano toni da censori o da inquisitori, si sentono padroni di una “verità” che permette loro denigrare il lavoro di studio di altri studiosi, non vi è più differenza fra le liti da stadio e le discussioni accademiche. Forse giova tutto questo all’autore per avere un articolo in fascia A e non una semplice recensione?
E allora lo scadimento dei costumi potrebbe non risiedere nel fatto che un’istituzione prestigiosa come la Normale abbia permesso a una studiosa di provincia, una non-normalista, di accedere agli archivi e di curare un importante epistolario, che può e deve essere migliorato in alcuni dettagli che poco incidono sul lavoro complessivo. La decadenza è invece proprio il considerare da parte del recensore di dover produrre un articolo scientifico con il solo intento di censurare una pubblicazione, una curatela e perfino una cassa editrice e un’istituzione come la Normale, sulla base di una decina di errori chiamati “filologici”, senza che sia data all’autrice nemmeno la possibilità di replica.
L’autore dell’articolo, uno storico, e non storico delle idee, di questa grande varietà di temi non dà notizia: l’epistolario avrebbe per lui valore soprattutto in quanto mette in evidenza la periodizzazione della traduzione degli Eretici italiani di Cantimori in tedesco per opera di Werner Kaegi. Che ben venga questa interpretazione! Ma che dire di tutti gli altri spunti, che verranno sicuramente registrati da altri e a cui la curatrice accenna nella sua introduzione?
L’oggetto di questa mia replica è l’articolo uscito su “Nuova Rivista Storica” (fascicolo 1, 2023) di Nicola D’Elia, La corrispondenza tra Delio Cantimori e Werner Kaegi. Note su un’edizione infelice.
Parlerò dunque di un articolo di 10 pagine che si è cimentato a stroncare un epistolario di 311 lettere tra due grandi storiografi del Ventesimo secolo, Delio Cantimori e Werner Kaegi, senza nemmeno precisare l’apporto storiografico della loro opera, la complessa vicenda personale che ha portato all’intreccio del loro rapporto, il loro dialogo su argomenti affascinanti e diversissimi. L’epistolario che si snoda in più di trent’anni svolge temi ampi e centrali: dalla politica – dei partiti e dei governi – alla storiografia – rinascimentale e non solo – alla cultura, all’esistenza di ambienti storiiografici fecondi per lo sviluppo di tutta la storiografia novecentesca. Gli argomenti spaziano dalla discussione sulla concezione politica di Huizinga, alla polemica sui saggi di Antoni, dalla considerazione dell’importanza dei lavori storiografici e non, come quelli di Burckhardt, e di Weber, alla discussione sui concetti di umanesimo e rinascimento, tolleranza ed eresia, fino alla riflessione solo accennata sulle prime edizioni dell’opera di Gramsci e sulla politica del partito comunista italiano nel dopoguerra.
Così io sarei stata grata a Nicola D’Elia per i preziosi suggerimenti e per le sue critiche che avrei accolto con piacere e che avrebbero migliorato il mio lavoro. Sarei stata felice di poter usufruire di uno sforzo che arricchirebbe e correggerebbe quei punti interrogativi che non possono mancare in un’opera così vasta. Tuttavia D’Elia, che si definisce - come già ricordati - “modesto manovale della ricerca”, non desidera collaborare col suo prezioso tempo e ingegno a rendere migliore un lavoro di studio, ma desidera segnare con la penna rossa e blu tutti gli errori, diventando di fatto un censore, che in dieci pagine condanna senza dubbio la pubblicazione di 311 lettere che finora erano accessibili solo dagli studiosi che potevano recarsi a Basilea e a Pisa presso gli archivi Sacher e quelli della Normale. Non voglio rispondere a tutti i punti della sua minuziosa opera di correzione fitta e che riguardano talvolta banali refusi talaltra fraintendimenti. Certamente apprezzo i suoi suggerimenti per la sequela di alcune delle lettere non datate, che, seppur esattamente collocate negli anni e nel periodo, devono essere invertite. Lo ringrazio per la sua cura nel cercare con grande acribia tutti i riferimenti agli studenti di Kaegi, ad alcuni autori e alcune opere fra le tante citate nelle lettere. D’Elia, tuttavia, non si chiede se la collocazione delle note della curatrice, inoltre, potrebbe rispondere alla necessità di introdurre una nota corposa su un autore laddove si parli estesamente dello stesso. Sono queste scelte della curatrice su cui si può obiettare, ma che potrebbero essere viste con spirito interlocutorio e non inquisitorio. D’Elia sottolinea inoltre la mancanza di attenzione ad argomenti, aspetti e perfino parole che invece sono contenuti nell’epistolario: riguardo a una lettera di Cantimori che parla di anti-campana riferendosi allo storico Campana (come è già riportato nella stessa lettera e dalla curatrice) non coglie l’ironia e il gioco di parole del termine anticampana, o sottolinea la datazione della traduzione degli Eretici di Cantimori – datazione che è esatta ed è già riportata nelle lettere. Non si comprende dove sia l’errore o da dove nasca la sottolineatura di “errore blu” da parte del maestro. É inoltre chiaro che la fine dell’edizione degli eretici – e dunque di tutta la traduzione con correzioni e altro – sia successiva alla vera e propria traduzione di Kaegi degli Eretici di Cantimori e pertanto non si capisce perché questo fatto ovvio venga messo in dubbio.
Nessun commento:
Posta un commento