di Francesca Vera Romano
Sono una dottoranda dell'Università degli studi di Roma ‘’La Sapienza”, impegnata da alcuni anni in un progetto di ricerca relativo al ruolo esercitato da Chiesa e Inquisizione in Italia nel Cinque-Seicento, con particolare attenzione al Regno di Napoli e al governo delle pratiche magico-diaboliche. Per questo motivo non poteva sfuggire alla mia attenzione la recente pubblicazione di un libro dedicato alla vita religiosa degli abitanti di Procida tra l’età moderna e contemporanea. Mi riferisco a un volume collettivo coordinato da un docente della Facoltà di Architettura dell'Università Federico II, Salvatore Di Liello, e intitolato Procida sacra. L’immaginario religioso tra feste, riti e processioni.
Il testo consta di una prefazione, di una duplice presentazione, di un saggio introduttivo, redatto dal curatore, di otto contributi, di una serie di foto e di disegni, nonché di una planimetria delle chiese e delle processioni attive nell’isola, di una bibliografia, peraltro prevalentemente locale, e di un elenco delle fonti archivistiche consultate. La pubblicazione si inserisce nelle iniziative legate alla decisione del Mibact di designare Procida capitale italiana della cultura per il 2022 (p. 6).
Purtroppo – dispiace dirlo – il volume non corrisponde alle aspettative suscitate dal titolo e dall’indice. Gli aspetti più interessanti del libro sono, a mio avviso, pochi: si tratta, al di là di due interventi, che segnalerò più avanti, dei suggestivi disegni di interesse religioso di Giovanni Righi, un giovane e noto artista locale (pp. 157-159), e, soprattutto, di una serie di splendide immagini provenienti dal prezioso Archivio di Attila Scotto di Uccio, fotografo attivo a Procida tra gli anni Trenta e Ottanta del Novecento (pp. 83-102). Se ne possono ricavare tracce cospicue e di grande rilievo delle tradizioni religiose vive a Procida nel cuore del secolo scorso e in buona parte ancora oggi.Penso in particolare alle suggestive foto di una famiglia isolana che nel 1954 accompagna al battesimo un neonato, di fatto invisibile agli sguardi dei presenti, in quanto fasciato dal ‘cuntriedd’, un drappo fregiato di preziosi ricami (pp. 84-86). Si tratta di documenti importanti. Essi consentono di avvicinarsi ad aspetti inediti della storia vissuta del sacramento, soprattutto in rapporto a ciò che sappiamo da qualche anno dell’amministrazione del battesimo a Procida in età moderna.
Sono una dottoranda dell'Università degli studi di Roma ‘’La Sapienza”, impegnata da alcuni anni in un progetto di ricerca relativo al ruolo esercitato da Chiesa e Inquisizione in Italia nel Cinque-Seicento, con particolare attenzione al Regno di Napoli e al governo delle pratiche magico-diaboliche. Per questo motivo non poteva sfuggire alla mia attenzione la recente pubblicazione di un libro dedicato alla vita religiosa degli abitanti di Procida tra l’età moderna e contemporanea. Mi riferisco a un volume collettivo coordinato da un docente della Facoltà di Architettura dell'Università Federico II, Salvatore Di Liello, e intitolato Procida sacra. L’immaginario religioso tra feste, riti e processioni.
Il testo consta di una prefazione, di una duplice presentazione, di un saggio introduttivo, redatto dal curatore, di otto contributi, di una serie di foto e di disegni, nonché di una planimetria delle chiese e delle processioni attive nell’isola, di una bibliografia, peraltro prevalentemente locale, e di un elenco delle fonti archivistiche consultate. La pubblicazione si inserisce nelle iniziative legate alla decisione del Mibact di designare Procida capitale italiana della cultura per il 2022 (p. 6).
Purtroppo – dispiace dirlo – il volume non corrisponde alle aspettative suscitate dal titolo e dall’indice. Gli aspetti più interessanti del libro sono, a mio avviso, pochi: si tratta, al di là di due interventi, che segnalerò più avanti, dei suggestivi disegni di interesse religioso di Giovanni Righi, un giovane e noto artista locale (pp. 157-159), e, soprattutto, di una serie di splendide immagini provenienti dal prezioso Archivio di Attila Scotto di Uccio, fotografo attivo a Procida tra gli anni Trenta e Ottanta del Novecento (pp. 83-102). Se ne possono ricavare tracce cospicue e di grande rilievo delle tradizioni religiose vive a Procida nel cuore del secolo scorso e in buona parte ancora oggi.Penso in particolare alle suggestive foto di una famiglia isolana che nel 1954 accompagna al battesimo un neonato, di fatto invisibile agli sguardi dei presenti, in quanto fasciato dal ‘cuntriedd’, un drappo fregiato di preziosi ricami (pp. 84-86). Si tratta di documenti importanti. Essi consentono di avvicinarsi ad aspetti inediti della storia vissuta del sacramento, soprattutto in rapporto a ciò che sappiamo da qualche anno dell’amministrazione del battesimo a Procida in età moderna.
Le cerimonie immortalate a metà del Novecento dal fotografo isolano, probabilmente impensabili nei decenni successivi, nel quadro del radicale mutamento dei costumi intervenuto nell’Italia intera a far tempo dagli anni Sessanta-Settanta, sono una fonte preziosa. Nella importanza del momento e nella serietà degli sguardi del piccolo gruppo di congiunti che accompagna la madrina e il neonato in chiesa si rispecchia con precisione la premura delle famiglie per l’evento imminente e per il forte rilievo del sacramento da cui sta per nascere un nuovo cristiano.
Nulla – in immagini così composte – fa pensare agli antefatti che drammatizzarono spesso, a Procida come in quasi tutta l’Europa della Controriforma, l’amministrazione del battesimo. Un momento straordinario come la nascita si trasformò a lungo, per i genitori più sfortunati, in un’odissea, fatta di drammatiche corse contro il tempo e spesso di momenti di disperazione. Ai piccoli nati in condizioni di salute precarie e morti senza il sacramento le autorità ecclesiastiche negavano di solito la sepoltura, costringendo i genitori a sotterfugi di ogni genere per aggirare il divieto (cfr. in proposito almeno il volume a cura di A. Prosperi, Salvezza delle anime e disciplina dei corpi. Un seminario sulla storia del battesimo, Edizioni della Normale, Pisa 2006).
Una lunga storia, intrisa di lacrime e sangue, caratterizzò anche a Procida gran parte delle nascite a rischio dal tardo Cinquecento almeno fino al cuore del Settecento. Puntualmente ricostruita alcuni anni fa in un libro innovativo, frutto di accurate ricerche condotte da uno dei più autorevoli studiosi della Chiesa e dell’Inquisizione nell’Italia moderna (G. Romeo, L’isola ribelle. Procida nelle tempeste della Controriforma, Laterza, Roma-Bari 2020), essa è curiosamente ignorata, come gran parte della storia religiosa dell’isola nell’età della Controriforma, in Procida sacra.
L’obiettivo delle autorità ecclesiastiche di ridurre al minimo la distanza tra nascita e battesimo, ossessivamente coltivato all’indomani del concilio di Trento, ebbe conseguenze devastanti anche nella piccola isola campana. A Procida la questione si pose drammaticamente all’inizio del Seicento, a seguito dell’incardinazione dell’isola alla diocesi di Napoli. Per alcuni anni i cadaveri dei neonati morti senza battesimo (che nel crudo linguaggio dell’Italia del tempo erano definiti ‘pagani’), furono abbandonati all’esterno dell’abbazia di S. Michele Arcangelo, chiesa madre di Procida, e finirono in pasto ai cani. Quella decisione crudele fu revocata presto, ma affannose corse contro il tempo continuarono a caratterizzare per i genitori isolani le nascite a rischio fino al Settecento inoltrato (Romeo 2020, pp. 68-72 e passim).
Curiosamente, né questo aspetto drammatico della storia religiosa dell’isola, né le numerose contraddizioni aperte dai ripetuti tentativi della Chiesa ufficiale di piegare ai modelli religiosi della Controriforma una comunità fortemente attaccata ai suoi modi di vita, figurano in Procida sacra. Buona parte dei contributi si limita a descrivere pedissequamente le pratiche e le tradizioni religiose più diffuse oggi nell’isola, solo in qualche caso con risultati di un certo rilievo (penso soprattutto al lavoro dedicato da Bianca Stranieri ai tessuti e ricami sacri procidani, pp. 132-146, e al saggio di Stefano De Mieri sulle statue ‘tardo barocche’ dell’isola, pp. 118-131). Alla fine, un'impostazione così riduttiva, poco attenta ai tratti qualificanti delle battaglie civili e spirituali combattute dalla comunità isolana nel Sei-Settecento, restituisce una storia di Procida largamente incompleta.
Il risultato che lascia più perplessi, in un volume così ‘leggero’, è la curiosa sottovalutazione del rilievo enorme avuto nell’isola dal Monte dei marinai, una associazione solidaristica nata nel 1617 e destinata ad esercitare un ruolo di primo piano nella vita locale almeno fino alla fine dell’Ottocento. Quell’organismo, che sin dalla nascita scelse lo Stato come istituzione di riferimento, in polemica con gli arcivescovi di Napoli, decise subito di costruire una propria chiesa e ne chiese l’autorizzazione solo al viceré. In essa l’amministrazione del sacro fu garantita a lungo solo dai governatori del Monte, che non ebbero difficoltà a perpetuare al suo interno anche le tradizioni pagane della vigilia di S. Giovanni, almeno fino a metà del Settecento (Romeo, passim).
Purtroppo nessun cenno a questi aspetti di primo piano della storia religiosa dell’isola figura in Procida sacra. Stupiscono anche imprecisioni sorprendenti, come quella che, nell’intento di enfatizzare la particolare precocità della devozione locale per S. Michele Arcangelo, la collega, nel VII secolo, a una paura, quella per le incursioni degli ottomani, ancora di là da venire nei secoli… (S. Di Liello, p. 10) e quelle, ripetute, che riguardano il nome del Monte dei marinai. La scelta dei suoi fondatori di non qualificare come ‘Pio’ il Monte, che allo stato attuale della documentazione sembra deliberata, non figura in quasi nessuno dei contributi del volume. Oltre tutto, se in alcuni di essi ci si limita all’aggiunta dell’aggettivo ‘Pio’ (è il caso dell’intervento del curatore, a p. 14), in altri (la Presentazione di Gianfranco Wurzburger, a p. 9, e il lavoro di Daniela Di Girolamo, a p. 151), se ne parla addirittura come di una arciconfraternita o di una confraternita, con un totale stravolgimento dell'identità storica del Monte.
Lo stesso discorso vale per altri aspetti della vita civile e religiosa che caratterizzarono Procida per tutta l’età moderna: dalla risoluta ostilità dei suoi abitanti alla soggezione agli arcivescovi di Napoli, intervenuta alla fine del Cinquecento – l’isola era sempre stata un territorio nullius dioecesis, blandamente controllato da prelati non residenti – al rifiuto netto dei tanti inasprimenti legati alle nuove regole dettate dalla Chiesa della Controriforma.
Colpisce, ad esempio, la fedeltà ostinata degli isolani al matrimonio tradizionale, abitualmente preceduto dalla convivenza dei promessi sposi e dalla nascita di figli. Non soltanto quel modello ne fu a lungo un tratto essenziale, malgrado le periodiche piogge di scomuniche che si abbattevano sulle coppie proibite, ma, osservato su scala diocesana, si può confrontare solo con le resistenze accanite opposte alle autorità ecclesiastiche dagli abitanti di una capitale particolarmente ‘difficile’ come Napoli. Proprio l’attenzione alla imponenza di queste tradizioni nella storia di Procida avrebbe potuto essere il punto di partenza per una ricerca approfondita. Quando e perché i modi di vita ben poco compatibili con l’ortodossia solidamente attestati nell’isola fino al Settecento inoltrato siano stati indeboliti fino a ridursi al lumicino, a vantaggio della rigogliosa serie di pratiche religiose elencate nel volume, resta nell’ombra, in un libro essenzialmente descrittivo.
Oltre tutto – ecco uno dei motivi del mio intervento - le ricerche che sto conducendo da tempo su un ampio ventaglio di fonti inedite, nel corso del dottorato, invitano a riflettere sull’ampio rilievo che assumono ovunque, in Italia, le resistenze ai modelli religiosi della Controriforma. I riscontri e i confronti già operati ne L’isola ribelle trovano ulteriori, ampie conferme nella documentazione di età moderna relativa alle aree lucane e pugliesi da me studiate. Le stesse forti resistenze opposte dalla comunità procidana ai continui tentativi di disciplinamento operati dalle autorità diocesane si ritrovano anche in altre aree del Sud, specchio della forza intatta dei modi di vita che Ernesto De Martino scoprì e studiò negli anni ’50 in Lucania, in ricerche celebri. Mi limito qui a segnalare due casi inquisitoriali, che riguardano ancora una volta le svariate contraddizioni legate all’amministrazione del battesimo.
Nel primo, capitato nel 1593, non sono gli affanni legati alle nascite a rischio ad inquietare le autorità ecclesiastiche. È il forte, diffuso rilievo del sacramento in quanto dispensatore di ‘potenza’, nel corso di uno dei tanti abusi su cui erano chiamati a vigilare i parroci e i giudici del Sant’Ufficio. La vicenda, cui qui si può solo accennare, riguarda proprio la Lucania. In un procedimento inquisitoriale avviato nel tribunale vescovile di Melfi è in gioco il battesimo di un capestro forse già utilizzato nel corso di un’impiccagione.
L’eccesso, addebitato a un diacono, era capitato a Napoli, a casa di una donna dell’alta società, che aveva molti amanti di rango e aveva forse insistito a lungo per convincere l’ecclesiastico a commettere un eccesso così grave. Il gesto sacrilego era stato compiuto, oltre tutto, nel giorno della domenica delle Palme, prima che sorgesse il sole, anche grazie alla attiva collaborazione della padrona di casa. Lo ammise lo stesso inquisito (‘Et detta signora […] andò in un'altra camera a pigliar una carrafina d'olio, dicendo che era olio santo, col qual olio io onsi detto capestro battizzato secondo il solito che si ungono i bambini, osservando et seguendo circa detto battesimo in tutto e per tutto quanto commandano quei libri del battesimo et il nome che si pose al capestro battezzato fu Maimorì, et non mi ricordo bene se o la signora o il siciliano fosse il compare che tenesse detto capestro…’).
Dopo quel primo battesimo ne erano stati praticati, su richiesta della padrona di casa, svariati altri, a cominciare da quelli dei pezzi di calamita, usuali ovunque in Italia tra gli ingredienti delle pratiche magiche (‘detta signora portò calamita et altre cose, perché fossero battizzate, ponendole su la tavola, con dir che partecipavano al battesimo del capestro, se ben non si facevano le cerimonie sopra la calamita et altre cosette […] di detta signora, che le portava sopra di sé’).
Molto più vicino alle drammatiche vicende dei battesimi isolani è invece l’altro caso, capitato in Puglia nel 1713 e ben più complicato. Nell’essenziale, però, le contraddizioni sono identiche a quelle ricostruite per Procida. Siamo a Vieste, ed è in gioco la storia dolorosa di una mano ‘pagana’, recisa cioè dal cadavere di un neonato insepolto, consegnato ai genitori in un involucro di tessuto cucito appositamente dalla levatrice, perché lo seppellissero. A seguito delle difficoltà incontrate da essi, qualcuno trova il tempo per aprire il piccolo sacco e tagliare una mano, che diventa ben presto strumento di potere malefico per una donna. Ne segue un processo di notevole rilievo, di cui è impossibile dare conto in questa sede.
Basti qui sottolineare, però, che, in una Italia in cui da oltre 150 anni vescovi e inquisitori fanno il possibile per sradicare credenze e pratiche di matrice pagana, l’avanzata dei processi di cristianizzazione sembra molto modesta. Il quadro è del tutto identico a quello che negli stessi anni nella piccola isola del golfo di Napoli consentiva al Monte dei marinai di celebrare pubblicamente i riti della vigilia di S. Giovanni nella ‘sua’ chiesa di Stato, fondata e gestita in piena autonomia. Il processo che avrebbe portato all'affermazione della Procida sacra descritta nel volume qui recensito, sarebbe stato tutt'altro che semplice e forse tutt'altro che breve.
Procida sacra. L’immaginario religioso tra feste, riti e processioni, a cura di Salvatore Di Liello, Nutrimenti, Roma 2022, pp. 176, 16 €.
Per acquistare il libro on line: https://www.nutrimenti.net/libro/procida-sacra
Nulla – in immagini così composte – fa pensare agli antefatti che drammatizzarono spesso, a Procida come in quasi tutta l’Europa della Controriforma, l’amministrazione del battesimo. Un momento straordinario come la nascita si trasformò a lungo, per i genitori più sfortunati, in un’odissea, fatta di drammatiche corse contro il tempo e spesso di momenti di disperazione. Ai piccoli nati in condizioni di salute precarie e morti senza il sacramento le autorità ecclesiastiche negavano di solito la sepoltura, costringendo i genitori a sotterfugi di ogni genere per aggirare il divieto (cfr. in proposito almeno il volume a cura di A. Prosperi, Salvezza delle anime e disciplina dei corpi. Un seminario sulla storia del battesimo, Edizioni della Normale, Pisa 2006).
Una lunga storia, intrisa di lacrime e sangue, caratterizzò anche a Procida gran parte delle nascite a rischio dal tardo Cinquecento almeno fino al cuore del Settecento. Puntualmente ricostruita alcuni anni fa in un libro innovativo, frutto di accurate ricerche condotte da uno dei più autorevoli studiosi della Chiesa e dell’Inquisizione nell’Italia moderna (G. Romeo, L’isola ribelle. Procida nelle tempeste della Controriforma, Laterza, Roma-Bari 2020), essa è curiosamente ignorata, come gran parte della storia religiosa dell’isola nell’età della Controriforma, in Procida sacra.
L’obiettivo delle autorità ecclesiastiche di ridurre al minimo la distanza tra nascita e battesimo, ossessivamente coltivato all’indomani del concilio di Trento, ebbe conseguenze devastanti anche nella piccola isola campana. A Procida la questione si pose drammaticamente all’inizio del Seicento, a seguito dell’incardinazione dell’isola alla diocesi di Napoli. Per alcuni anni i cadaveri dei neonati morti senza battesimo (che nel crudo linguaggio dell’Italia del tempo erano definiti ‘pagani’), furono abbandonati all’esterno dell’abbazia di S. Michele Arcangelo, chiesa madre di Procida, e finirono in pasto ai cani. Quella decisione crudele fu revocata presto, ma affannose corse contro il tempo continuarono a caratterizzare per i genitori isolani le nascite a rischio fino al Settecento inoltrato (Romeo 2020, pp. 68-72 e passim).
Curiosamente, né questo aspetto drammatico della storia religiosa dell’isola, né le numerose contraddizioni aperte dai ripetuti tentativi della Chiesa ufficiale di piegare ai modelli religiosi della Controriforma una comunità fortemente attaccata ai suoi modi di vita, figurano in Procida sacra. Buona parte dei contributi si limita a descrivere pedissequamente le pratiche e le tradizioni religiose più diffuse oggi nell’isola, solo in qualche caso con risultati di un certo rilievo (penso soprattutto al lavoro dedicato da Bianca Stranieri ai tessuti e ricami sacri procidani, pp. 132-146, e al saggio di Stefano De Mieri sulle statue ‘tardo barocche’ dell’isola, pp. 118-131). Alla fine, un'impostazione così riduttiva, poco attenta ai tratti qualificanti delle battaglie civili e spirituali combattute dalla comunità isolana nel Sei-Settecento, restituisce una storia di Procida largamente incompleta.
Il risultato che lascia più perplessi, in un volume così ‘leggero’, è la curiosa sottovalutazione del rilievo enorme avuto nell’isola dal Monte dei marinai, una associazione solidaristica nata nel 1617 e destinata ad esercitare un ruolo di primo piano nella vita locale almeno fino alla fine dell’Ottocento. Quell’organismo, che sin dalla nascita scelse lo Stato come istituzione di riferimento, in polemica con gli arcivescovi di Napoli, decise subito di costruire una propria chiesa e ne chiese l’autorizzazione solo al viceré. In essa l’amministrazione del sacro fu garantita a lungo solo dai governatori del Monte, che non ebbero difficoltà a perpetuare al suo interno anche le tradizioni pagane della vigilia di S. Giovanni, almeno fino a metà del Settecento (Romeo, passim).
Purtroppo nessun cenno a questi aspetti di primo piano della storia religiosa dell’isola figura in Procida sacra. Stupiscono anche imprecisioni sorprendenti, come quella che, nell’intento di enfatizzare la particolare precocità della devozione locale per S. Michele Arcangelo, la collega, nel VII secolo, a una paura, quella per le incursioni degli ottomani, ancora di là da venire nei secoli… (S. Di Liello, p. 10) e quelle, ripetute, che riguardano il nome del Monte dei marinai. La scelta dei suoi fondatori di non qualificare come ‘Pio’ il Monte, che allo stato attuale della documentazione sembra deliberata, non figura in quasi nessuno dei contributi del volume. Oltre tutto, se in alcuni di essi ci si limita all’aggiunta dell’aggettivo ‘Pio’ (è il caso dell’intervento del curatore, a p. 14), in altri (la Presentazione di Gianfranco Wurzburger, a p. 9, e il lavoro di Daniela Di Girolamo, a p. 151), se ne parla addirittura come di una arciconfraternita o di una confraternita, con un totale stravolgimento dell'identità storica del Monte.
Lo stesso discorso vale per altri aspetti della vita civile e religiosa che caratterizzarono Procida per tutta l’età moderna: dalla risoluta ostilità dei suoi abitanti alla soggezione agli arcivescovi di Napoli, intervenuta alla fine del Cinquecento – l’isola era sempre stata un territorio nullius dioecesis, blandamente controllato da prelati non residenti – al rifiuto netto dei tanti inasprimenti legati alle nuove regole dettate dalla Chiesa della Controriforma.
Colpisce, ad esempio, la fedeltà ostinata degli isolani al matrimonio tradizionale, abitualmente preceduto dalla convivenza dei promessi sposi e dalla nascita di figli. Non soltanto quel modello ne fu a lungo un tratto essenziale, malgrado le periodiche piogge di scomuniche che si abbattevano sulle coppie proibite, ma, osservato su scala diocesana, si può confrontare solo con le resistenze accanite opposte alle autorità ecclesiastiche dagli abitanti di una capitale particolarmente ‘difficile’ come Napoli. Proprio l’attenzione alla imponenza di queste tradizioni nella storia di Procida avrebbe potuto essere il punto di partenza per una ricerca approfondita. Quando e perché i modi di vita ben poco compatibili con l’ortodossia solidamente attestati nell’isola fino al Settecento inoltrato siano stati indeboliti fino a ridursi al lumicino, a vantaggio della rigogliosa serie di pratiche religiose elencate nel volume, resta nell’ombra, in un libro essenzialmente descrittivo.
Oltre tutto – ecco uno dei motivi del mio intervento - le ricerche che sto conducendo da tempo su un ampio ventaglio di fonti inedite, nel corso del dottorato, invitano a riflettere sull’ampio rilievo che assumono ovunque, in Italia, le resistenze ai modelli religiosi della Controriforma. I riscontri e i confronti già operati ne L’isola ribelle trovano ulteriori, ampie conferme nella documentazione di età moderna relativa alle aree lucane e pugliesi da me studiate. Le stesse forti resistenze opposte dalla comunità procidana ai continui tentativi di disciplinamento operati dalle autorità diocesane si ritrovano anche in altre aree del Sud, specchio della forza intatta dei modi di vita che Ernesto De Martino scoprì e studiò negli anni ’50 in Lucania, in ricerche celebri. Mi limito qui a segnalare due casi inquisitoriali, che riguardano ancora una volta le svariate contraddizioni legate all’amministrazione del battesimo.
Nel primo, capitato nel 1593, non sono gli affanni legati alle nascite a rischio ad inquietare le autorità ecclesiastiche. È il forte, diffuso rilievo del sacramento in quanto dispensatore di ‘potenza’, nel corso di uno dei tanti abusi su cui erano chiamati a vigilare i parroci e i giudici del Sant’Ufficio. La vicenda, cui qui si può solo accennare, riguarda proprio la Lucania. In un procedimento inquisitoriale avviato nel tribunale vescovile di Melfi è in gioco il battesimo di un capestro forse già utilizzato nel corso di un’impiccagione.
L’eccesso, addebitato a un diacono, era capitato a Napoli, a casa di una donna dell’alta società, che aveva molti amanti di rango e aveva forse insistito a lungo per convincere l’ecclesiastico a commettere un eccesso così grave. Il gesto sacrilego era stato compiuto, oltre tutto, nel giorno della domenica delle Palme, prima che sorgesse il sole, anche grazie alla attiva collaborazione della padrona di casa. Lo ammise lo stesso inquisito (‘Et detta signora […] andò in un'altra camera a pigliar una carrafina d'olio, dicendo che era olio santo, col qual olio io onsi detto capestro battizzato secondo il solito che si ungono i bambini, osservando et seguendo circa detto battesimo in tutto e per tutto quanto commandano quei libri del battesimo et il nome che si pose al capestro battezzato fu Maimorì, et non mi ricordo bene se o la signora o il siciliano fosse il compare che tenesse detto capestro…’).
Dopo quel primo battesimo ne erano stati praticati, su richiesta della padrona di casa, svariati altri, a cominciare da quelli dei pezzi di calamita, usuali ovunque in Italia tra gli ingredienti delle pratiche magiche (‘detta signora portò calamita et altre cose, perché fossero battizzate, ponendole su la tavola, con dir che partecipavano al battesimo del capestro, se ben non si facevano le cerimonie sopra la calamita et altre cosette […] di detta signora, che le portava sopra di sé’).
Molto più vicino alle drammatiche vicende dei battesimi isolani è invece l’altro caso, capitato in Puglia nel 1713 e ben più complicato. Nell’essenziale, però, le contraddizioni sono identiche a quelle ricostruite per Procida. Siamo a Vieste, ed è in gioco la storia dolorosa di una mano ‘pagana’, recisa cioè dal cadavere di un neonato insepolto, consegnato ai genitori in un involucro di tessuto cucito appositamente dalla levatrice, perché lo seppellissero. A seguito delle difficoltà incontrate da essi, qualcuno trova il tempo per aprire il piccolo sacco e tagliare una mano, che diventa ben presto strumento di potere malefico per una donna. Ne segue un processo di notevole rilievo, di cui è impossibile dare conto in questa sede.
Basti qui sottolineare, però, che, in una Italia in cui da oltre 150 anni vescovi e inquisitori fanno il possibile per sradicare credenze e pratiche di matrice pagana, l’avanzata dei processi di cristianizzazione sembra molto modesta. Il quadro è del tutto identico a quello che negli stessi anni nella piccola isola del golfo di Napoli consentiva al Monte dei marinai di celebrare pubblicamente i riti della vigilia di S. Giovanni nella ‘sua’ chiesa di Stato, fondata e gestita in piena autonomia. Il processo che avrebbe portato all'affermazione della Procida sacra descritta nel volume qui recensito, sarebbe stato tutt'altro che semplice e forse tutt'altro che breve.
Procida sacra. L’immaginario religioso tra feste, riti e processioni, a cura di Salvatore Di Liello, Nutrimenti, Roma 2022, pp. 176, 16 €.
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